Qualche sera fa abbiamo visto un bel documentario sui Beach Boys e a un certo punto è venuto fuori un tema interessante: i Beach Boys hanno avuto grande successo nella prima metà degli anni Sessanta, perché incarnavano alla perfezione lo spirito di quel momento.
Erano spensierati, facevano voglia di andare al mare e sfidare le onde (anche se quasi nessuno di loro era veramente un surfista), le loro canzoni contribuivano a far entrare nell’immaginario collettivo l’idea giovane e bella del sogno californiano.
Poi però alla fine degli anni Sessanta la società cambia. C’è il Vietnam, iniziano le contestazioni, tutta quella leggerezza viene bollata come superficiale e soppiantata dall’impegno politico. All’improvviso i Beach Boys sono superati, quasi patetici nelle loro divise a righe.
Sembra la fine della loro gloria. Al che cercano di reinventarsi, provano a fare e proporre cose diverse ma perdono la loro riconoscibilità, diventano un gruppo fra i tanti, come tanti altri.
Sennonché passa qualche anno e di colpo ecco il revival: tornano a suonare le loro vecchie canzoni e riempiono gli stadi, perché intanto la gente sta già rimpiangendo i bei tempi passati e la nostalgia è più solida e duratura delle mode.
Questo movimento “ascesa-caduta-riscoperta” mi ha ricordato molto la storia di F. Scott Fitzgerald: anche lui ha colto alla perfezione lo spirito dei tempi agli inizi degli anni Venti del secolo scorso, la cosiddetta “età del jazz”. Poi è stato travolto dalla crisi economica del Ventinove e messo da parte in quanto cantore di un mondo frivolo ormai alle spalle. Con grande fatica ha provato a rimettersi in pista ma non ha avuto la stessa fortuna dei Beach Boys e non è riuscito a vedere in vita la sua riabilitazione: è morto dimenticato.
Solo dopo la sua morte Fitzgerald è diventato il simbolo di tutto un decennio, perché era riuscito in qualche maniera a crearne l’immagine che ancora oggi ne abbiamo.
Quindi quanto è giusto che i libri, e in generale l’arte, debbano seguire le mode e le tendenze del momento?
Secondo me molto poco. Piuttosto dovrebbe capitare il contrario: le mode e le tendenze dovrebbero farle (o indirizzarle) chi crea. E questo processo non dovrebbe succedere a tavolino, ma in maniera quasi inconsapevole. Soltanto annusando l’aria che tira, anticipando non troppo ma solo di un attimo quello che verrà e che la gente vorrà.
Una volta l’editor di una importante casa editrice bocciò un mio romanzo dicendo che “le mie storie non erano più di moda“. Lo era stato forse il romanzo Bambole cattive a Green Park, arrivato però un po’ tardi per ragioni editoriali, ma io non mi ero mai posto il problema di scrivere libri alla moda.
Devo dire che a distanza di molti anni e molti altri rifiuti, questa motivazione è ancora quella che mi ha dato più fastidio, perché era lontana anni luce dalla mia concezione dei libri e da quello che cercavo e che ho sempre cercato di fare.
Anche per questo quando ho fondato Las Vegas edizioni ho insistito moltissimo nella nostra comunicazione su un punto specifico: “non cerchiamo di inseguire le mode“.
Perché può sembrare una frase molto arrogante, ma secondo me le mode vanno fatte, non seguite.
[Foto: DAPA Images – Canva]
Sono perfettamente d’accordo. Consideriamo anche un fatto: la moda, spesso, si genera proprio a partire da quell’opera che la innesca, il resto è imitazione. Credo che in ambito editoriale sia piuttosto miope cercare opere che stiano all’interno di un trend, anche perché spesso, ora che vengono pubblicate con tutto il percorso che se ne richiede, sono già in ritardo.
Quello che fa la fortuna di un libro, come giustamente dici tu, è indirizzare una moda, non copiarla. Ovviamente è molto più rischioso e dispendioso, sia in termini di impegno sia di tempo, ma scrivere dovrebbe essere un piacere che non comporta sacrificio.
E infatti tanti editori si scontrano proprio con questa realtà: provano a replicare i successi del momento e vanno incontro a flop clamorosi.